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giovedì 19 agosto 2010

UNA TEMNPESTA NEL PANTANO

di: Gim Cassano

Lungi da me il sottovalutare significato e conseguenze del “divorzio” tra Berlusconi e Fini, dopo che questi è stato cacciato di casa per manifesta infedeltà tribale. Ma -ed occorrerebbe che la presunta opposizione se ne renda ben conto- non è lecito vedervi quel che non c'è. E non è lecito tentare di mascherare la propria incapacità di proposta sognando scorciatoie miracolistiche per uscire da una crisi nella quale i disastri morali, politici, istituzionali, economico-sociali si intrecciano ed aggravano a vicenda.

Credo che possa essere un utile esercizio il cercare di riportare ai dati di fondo i ragionamenti sulla crisi esplosa all'interno della maggioranza di governo, evitando di ammantare di significati ispirati essenzialmente ai propri desiderata un fenomeno che, a mio parere, è nato -e resta- tutto interno alla destra.

Mi riferisco ai ragionamenti che al riguardo sono stati fatti in primo luogo dai centristi dichiarati, interessati a vedervi la conferma della prospettiva del Terzo Polo, ed in secondo luogo dagli aspiranti centristi che, fuori e dentro il PD, sperano in una qualsivoglia soluzione, anche solo apparentemente diversa dal governo attuale, purchè consenta il realizzarsi di un qualche rimescolamento di carte, e purchè consenta di non affrontare le temutissime elezioni a breve.



Se la cacciata dei finiani dal PdL fornisce l'ennesima conferma circa il modo di concepire la politica che è proprio del sultano, dobbiamo però riconoscere che il tutto non rappresenta una novità, e che è solo il Presidente della Camera a fingere di stupirsi e di indignarsi al riguardo. Ed intanto, prima di ogni altra considerazione, e prima di astrologare su fulminee conversioni alla concezione di uno Stato Liberale, non sarebbe inopportuno porgli alcuni, non irrilevanti, quesiti:

dov'erano l'attuale Presidente della Camera, Della Vedova, Bocchino & C. quando si votavano le leggi ad personam?

si sono accorti solo adesso che la concezione politica che il cavaliere persegue è tale da rendere il Paese più simile ad un miserabile sultanato governato dall'arbitrio che ad uno Stato governato dal diritto?

ed ancora, dov'erano quando si sono fatti i patti con la Lega, con il federalismo quale prezzo del mercato? O quando si sono dilapidati denari pubblici per metterli nelle tasche dei “capitani coraggiosi” di Alitalia e per salvare dal fallimento Air-One? O ancora quando si è votato lo scudo fiscale? E quando si è votato il “Porcellum” o la sordida legge elettorale europea?

Non mi pare che coloro che oggi si raccolgono in Futuro & Libertà, tanto che si tratti del generale che dei suoi colonnelli o caporali, possano esser considerati estranei alla trasformazione del Bel Paese in quella fogna a cielo aperto della quale essi oggi avvertono il tanfo e di cui affermano di dolersi; e mi pare che non possano, a partire da Fini, svegliarsi oggi dicendo: “non so; non c'ero, e se c'ero, dormivo”.

Questa precisazione, di metodo, è necessaria per aver chiaro che non abbiamo a che fare con nuovi campioni della liberaldemocrazia. Che non è una teoria astratta, ma una prassi che non necessita di campioni improvvisi ed improvvisati, e che si fonda su una pratica umile, costante e coerente e su un kantiano rigore intellettuale, politico e morale: e non mi pare di potere osservare grandi dosi.

Ed è necessaria per rendersi conto dei limiti intrinseci, che d'altra parte non solo non sono mai stati smentiti, ma sono anche stati dichiarati, dell'iniziativa del Presidente della Camera. Il quale ha ribadito, ovviamente, la propria appartenenza alla maggioranza di governo, a questa maggioranza.

Il dato essenziale è che ad un matrimonio dettato da considerazioni di opportunità, è subentrato oggi un divorzio dettato da analoghe considerazioni. Lungi da una folgorazione sulla via di Damasco della democrazia liberale, Fini si è reso perfettamente conto che nel PdL berlusconiano il suo ruolo politico, sia pur di n° 2 e di potenziale erede, era venuto meno, e che buona parte dello staff di AN si era fatto volentieri fagocitare nelle concezioni e, soprattutto, negli interessi del sultano.

Ha così imboccato l'unica strada che gli restava aperta: quella della differenziazione politica, portata avanti sui terreni che più gli risultavano favorevoli ed opportuni: quello del rapporto con la Lega e quello del rispetto dello Stato di Diritto e delle sue regole, sui quali poteva realizzarsi la saldatura delle reminiscenze nazionaliste dei post-fascisti con la visione di una Destra più gaullista che peronista.

L'obbiettivo del Presidente della Camera, una volta buttato fuori dal PdL, è quello di riuscire ad imporre ad un cavaliere non più all'apice del gradimento un sistema di governo fondato su rapporti politici tra alleati, anziché tra padrone e servo. Nei suoi atti, nelle sue dichiarazioni, non è possibile leggere altro che una contesa tutta interna alla destra: a quella destra che ha ridotto il Paese nelle condizioni in cui si trova.

Per parte sua, Berlusconi sa bene che ciò significherebbe scalfire la sua concezione autocratica, restituendo un minimo di vita propria alle Istituzioni, e sa bene che ciò renderebbe meno facile la strada per venir “unto” da una sorta di plebiscito popolare nelle vesti di padre-padrone della patria, cosa che gli consentirebbe di bypassare il discredito morale che lo caratterizza, di imporre le “sue” riforme e, a questo punto, di rimettersi in gioco per la presidenza della repubblica. Questa è la materia del contendere; non altra.

Viste così le cose, mi sembra che la crisi della destra seguita al “divorzio” possa realisticamente avere due soli sbocchi:

-Il primo:

Che Berlusconi “imponga” le elezioni anticipate. Con il rischio più che concreto che il Paese precipiti in una campagna elettorale che al sultano risulterebbe facile impostare in termini di plebiscito personale e di sostanziale richiesta del contemporaneo via libera a maggiori poteri all'esecutivo e ad un federalismo disgregatore [risuoneranno i ragionamenti sulla “vecchia politica”, sulla semplificazione del quadro politico, sull'inutilità dei partiti e del Parlamento], ed alla quale l'afasia del Centro-Sinistra, e del PD in particolare, avrebbe ben poco da opporre, se non la consueta difesa di retroguardia e di rimessa.

E, ancor peggio: il voto con l'attuale legge elettorale tenderebbe a riproporre il fallito schema bipolare a vocazione bipartitica del 2008, assegnando ai due maggiori partiti la funzione di arbitri supremi dell'uno e dell'altro campo: la mancanza del voto di preferenza, oltre che non consentire ai cittadini la scelta dei propri rappresentanti, ha anche l'effetto surrettizio di rendere possibili, e quindi appetibili, eventuali accordi riguardanti la presenza in condizioni di eleggibilità nelle liste dei partiti maggiori di candidati provenienti dalle formazioni minori: strumento fortissimo messo nelle mani dei primi per disegnare a tavolino la geografia del proprio emisfero politico.

-Il secondo:

Che invece il sultano, convinto dalle colombe del suo partito, dalle prevedibili resistenze del Quirinale, sul quale non a caso si scatenano gli attacchi dei talebani del PdL, da sondaggi non più splendidi, dal rischio (grave in termini elettorali al Sud) di doversi presentare avendo come unico alleato una Lega, fedele sì, ma che non concede gratis alcuna fedeltà, e che continua ad alzare il prezzo man mano che essa si rivela sempre più insostituibile, pur continuando a brandire il randello elettorale, in realtà lasci decantare le cose. E che, a condizione di non ricevere ulteriori “provocazioni”, si acconci ad un governo fondato sul rapporto tra alleati e almeno all'apparenza non autocratico. Fini potrebbe così sostenere di aver ottenuto ciò che voleva, ma il sultano continuerebbe ad esser tale, pur avendo concesso qualcosa al suo avversario. E, in questa ipotesi, sarebbe interessante vedere quanta e quale volontà di continuare a stare all'opposizione resterà nella cosiddetta terza forza.

Altre possibilità, ad oggi, mi paiono inesistenti o del tutto oniriche, ed occorre non farsi illusioni su cosa ci attende nei prossimi mesi: una politica condotta da un governo incerto ed indebolito, sempre più pesantemente costruito sull'asse con la Lega, incapace di affrontare uno solo dei problemi del Paese (non avendone l'interesse), e screditato sul piano morale; ma reso forte, in assenza di alternative politiche percorribili e durevoli, dal fatto di avere in mano il pulsante rosso della bomba atomica elettorale.

Coloro che vagheggiano governi di transizione, di garanzia, istituzionali (per citare solo alcuni degli aggettivi dei quali si è sentito straparlare in questi giorni), dovrebbero anche indicare quali forze, presenti oggi in Parlamento, dovrebbero sorreggerli, e quali sarebbero i punti minimi ed irrinunciabili che un governo di tal fatta dovrebbe attuare. Ed appare assolutamente poco credibile che governi del genere possano avere la forza di portare a compimento una nuova legge elettorale, che sarebbe, in definitiva l'unica vera ragione che ne potrebbe giustificare l'esistenza, e riguardo alla quale, tra l'altro, le idee sono tutt'altro che chiare.

Ma ciò non basta: la crisi che il Paese sta attraversando non riguarda solo il funzionamento del sistema politico. Vi sono vere e proprie emergenze economiche, occupazionali, sociali. Queste hanno tutte origini antiche, preesistenti alla cosiddetta crisi finanziaria esplosa due anni fa. E sono radici a carattere strutturale: bassa crescita, iniquità fiscale e sociale, eccessive disparità economiche, bassissima mobilità sociale, progressiva estensione della fascia della povertà e della quasi-povertà, che viene a toccare anche la “lower middle-class”, progressiva concentrazione della ricchezza, profitti eccessivi di banche, assicurazioni, utilities; il tutto aggravato da disoccupazione, sottoccupazione e cattiva occupazione, dalle difficoltà economiche dell'apparato produttivo, e dalla carenza e mancanza di generalità del welfare. Al che si aggiunge, come ultimo e durevole frutto dell'età berlusconiana, il dilagare di una corruzione sfrontata e sfacciata, ed il venir meno di ogni barlume di etica pubblica, di equità, di coesione sociale e territoriale.

Coloro che oggi governano, Fini ed i suoi compresi, non hanno fatto nulla per ovviare a tutto ciò; anzi, al contrario, hanno aggravato i problemi con provvedimenti il più delle volte inutili, spesso iniqui. Non per insipienza, ma per deliberato ragionamento; il modello di società che si aveva in mente era ben diverso da quello di una società aperta e coesa.

Se ad un governo “di transizione” non compete certo il dar risposte a tutti i problemi del Paese, esso potrebbe avere un senso solo ove fosse in grado di avviare le condizioni, a partire da una nuova legge elettorale e dal ripristino delle condizioni minime di agibilità democratica (conflitto di interessi, libertà di informazione, ripristino del ruolo del Parlamento) per le quali queste risposte possano esser date.

Ma, ed è qui il punto, tali condizioni non sussistono. Se a destra, a partire dalla Lega, vi è la più totale chiusura su questi punti, il centro è interessato unicamente a rientrare in una qualsiasi maniera in gioco, per affermarsi come forza in grado di condizionare l'uno o l'altro dei due schieramenti alternativi (Francia o Spagna), e dal PD non arriva alcuna idea di società che possa apparire convicente agli italiani.

Non sembra plausibile, quindi, ritenere che sussistano le condizioni per le quali un governo “di transizione” possa avere un senso politico, se non quello di promuovere e sperimentare nei fatti una possibile alleanza tra destra e centristi.

Se si osservano le cose da questo punto di vista, appare in tutta la sua equivoca inutilità la proposta di una eterogenea “Terza Forza” quale potenziale asse della politica italiana, e nella quale molti vorrebbero vedere arruolarsi i finiani e Montezemolo insieme a Casini e Rutelli, con la benedizione di Chiesa e Confindustria. Mi pare difficile che questo progetto possa andar oltre la razionalizzazione degli attuali equilibri sociali e politici, presentando al Paese, forse, e nella migliore delle ipotesi, politiche di destra meno indecorose delle attuali, ma pur sempre orientate al conservatorismo culturale e sociale. Definire come modernizzatrice e liberale questa prospettiva, quando invece vi sarebbe bisogno di interventi e riforme strutturali che, lungi dal razionalizzarle, invertano le tendenze seguite negli ultimi anni, appare la perpetuazione dell'equivoco italiota tendente a confondere le concezioni liberali col moderatismo conservatore.

Tutto ciò detto, sarebbe miopia non valutare il significato e le conseguenze di quella che, a tutti gli effetti, oltre che la crisi della destra, è la fine del bipolarismo a vocazione bipartitica; e, forse, dello stesso bipolarismo. Una cosa è sicura: che il tentativo di forzare l'omologazione speculare della destra e del centro-sinistra su due partiti-contenitore a cosiddetta vocazione maggioritaria, è fallito. A destra ed a sinistra, PdL e PD devono fare i conti con quanto avevano cercato di evitare utilizzando lo strumento della legge elettorale nazionale ed europea: la necessità di dover fare i conti con altre formazioni. Il che, a ben vedere, è l'essenza della politica.

Ma, perché il bipartitismo autoritario possa venir meno, sarebbe necessaria la presenza di “veri” partiti politici, e non i loro simulacri in veste di partito-persona o di partito-contenitore nel quale è possibile pescare un po' di tutto.

Se questo ragionamento riguarda la destra come la sinistra, è su quest'ultimo versante, che mi pare più pressante. Non solo perché è quello che costituisce il mio ambito di riferimento politico, ma soprattutto perché è il concetto stesso di “sinistra”, nella sua accezione universale, a stridere fortemente con l'idea del partito a vocazione leaderistica, o con quella del partito-contenitore. Che sono forme politiche non a caso tipiche della tradizione della destra e del centrismo conservatore, e che in Italia si sono diffuse anche al di fuori di quest'area.

Così avviene che, anche a sinistra, nella generale incapacità di proposta, si privilegi il ragionamento su contenitori e prospettive dei relativi leaders, entro i quali ed al seguito dei quali non appare chiaro ai cittadini cosa realmente si intenda proporre, ed a chi ci si intenda rivolgere: si ha la sensazione che si guardi ad un Paese irreale ed astratto dalle questioni che realmente toccano ed interessano gli italiani.

Ne segue che si praticano comportamenti mancanti di visione strategica, e che la ragion politica si riduca ad un puro gioco nel quale è possibile ogni scelta (vedi, ad esempio, il comportamento del PD in Sicilia). E così si finisce col sognare più o meno apertamente eventuali scorciatoie che potrebbero esser offerte dalla crisi della maggioranza, come se ciò possa mettere in moto, oltre che un rimescolamento di carte tra gli stessi giocatori, le trasformazioni delle quali il Paese avrebbe bisogno, che invece richiederebbero la capacità di progettare e proporre vie del tutto alternative a quelle che il Paese ha percorso negli ultimi 15 anni.

Occorrerebbe invece, e soprattutto a sinistra, per quanto mi riguarda, la presenza di forze politiche che abbiano la capacità di intervenire nel dibattito politico con un progetto ed un'idea di società, e su questi misurarsi e stabilire alleanze e strategie.

Queste considerazioni conducono al problema principale della politica italiana: quello che ai partiti identitari della Prima Repubblica, fondati sì su culture politiche che affondavano le loro origini nel XIX° secolo, ma che comunque trovavano un riferimento importante nel radicamento culturale, sono subentrate formazioni politiche assolutamente prive di ogni forma di riferimento culturale, antico o moderno che sia. Ed incapaci pertanto di esprimere una qualsiasi idea di società sulla quale misurarsi, confrontarsi con le altre forze politiche, e chiedere il consenso dei cittadini.

Ed allora, se è doveroso considerare come condivisibili gli appelli ad un fronte comune di tutte le opposizioni, ad iniziare da quello di Bersani, va chiarito che ciò può avere un senso politico compiuto solo a condizione che l'avversione al berlusconismo e la comune volontà di ripristinare le condizioni di una normale vita democratica non ne siano l'unico legante. A ben vedere, la sussistenza di una normalità democratica non può fondarsi unicamente su istituzioni che formalmente la consentano e sul rispetto delle regole di uno Stato di Diritto, ma richiede anche una società aperta e coesa: cioè libera ed equa.

Ed è sulla definizione di questi aggettivi che si fa difficile un fronte comune di tutte le opposizioni: da Rutelli al PD, al PSI, a SEL, per non parlare di Ferrero (che onestamente ha dichiarato una disponibilità che non implichi la partecipazione a governi riformisti) corrono distanze grandi su molte questioni, che non si limitano a quelle riguardanti le scelte etiche e lo stato laico. E' allora opportuno che si inizi a fare chiarezza al riguardo, non solo per ricercare le condizioni di compatibilità per un fronte comune, ma soprattutto perché la politica italiana ha grande bisogno di chiarezza e di partiti “veri”, fondati su identità che, se non possono essere quelle logore del secolo passato, restano pur sempre il portato di culture politiche che guardino alla società di oggi e di domani. Solo a partire da queste chiarezze mi sembra possibile proporre al Paese l'alleanza elettorale e di potenziale governo di tutti coloro che intendono seriamente opporsi a questa destra. Poi, le elezioni potranno esser vinte o perse; ma, se perse, saranno state perse avendo iniziato a costruire seriamente un'alternativa non fondata su strategie incomprensibili o riposizionamenti di questo o di quello, ma fondata su un progetto riformatore competitivo con l'idea dell'Italia berlusconiana e tremontiana.

A maggior ragione quanto detto ha valore per tutte quelle forze che, da diverse matrici cultural-politiche, si rifanno alla categoria politica di “sinistra”. Se questo termine, in Italia, si è sclerotizzato in termini ideologici, altrove non è così, ed identifica la spinta verso una società progressivamente più aperta, libera ed equa, e la tutela giuridica e sociale del debole rispetto al forte.

Occorre allora che il mondo intellettuale e le forze di sinistra, senza preclusioni, inizino a confrontare e definire le loro posizioni attorno ad un progetto politico, ad un'idea di società alternativa a quella della destra, che queste avviino la costruzione, in termini non ideologici e prescindendo dagli anatemi e dagli steccati del XX° secolo, della cultura politica e del progetto di una società aperta e coesa.

Questo mi appare come il principale, urgente ed ineludibile compito di tutte le forze che, da provenienze diverse, si rifanno alla categoria politica di “sinistra”. E' un compito comunque necessario, a prescindere dalle probabili urgenze elettorali. Non è assolutamente scontato che questo processo possa condurre a conclusioni unitarie; anzi, è altamente improbabile. Ma può e deve condurre a collaborazioni preferenziali ed a comuni strategie, che consentano di uscire dal pantano attuale. Ed è solo a partire da questo chiarimento e da queste collaborazioni che può venir verificata la possibilità di un'intesa comune di tutto il fronte di coloro che intendono ripristinare normali condizioni di vita democratica.

Alle forze minori della sinistra, dal PSI ai Verdi, a SEL, ai liberali e laici di sinistra, a quella parte del PD che è più consapevole della necessità di uscire dal pantano, senza che alcuno abbia la pretesa di interferire nella altrui vita familiare, spetta di avviare questo processo.

Gim Cassano (19-08-2010)